Il limite del potere assoluto del Parlamento.
Le fonti del diritto (democrazia come diritto universale dell’umanità)
In una famosa sentenza (caso Marbury contro Madison, 1803) la Corte suprema federale degli Stati Uniti affermò che la Costituzione è anch’essa una legge, superiore alle altre leggi; che sin quando essa non venga modificata con gli appositi speciali e complessi procedimenti, le altre leggi (“ordinarie”) devono rispettare la Costituzione; e che, se non la rispettano, sono nulle e qualunque giudice ha il potere e il dovere di non applicarle.
La Corte costituzionale: una istituzione giovane
La Corte costituzionale è una istituzione creata in tempi relativamente recenti. Nulla di simile vi era nell’ordinamento italiano anteriore alla Costituzione del 1948. In altri paesi, organismi analoghi erano stati previsti per la prima volta – sulla base soprattutto delle elaborazioni teoriche di un grande giurista democratico austriaco, Hans Kelsen – in alcune Costituzioni europee degli anni Venti del secolo scorso. Dopo la seconda guerra mondiale, una Corte (o Tribunale o Consiglio) costituzionale è stata prevista, oltre che nella Costituzione italiana, in quella tedesco-occidentale del 1949 (la prima entrata in funzione nell’Europa postbellica, a partire dallo stesso anno); più tardi si ritrova (in forma diversa) nella Costituzione francese del 1958, nelle Costituzioni democratiche del Portogallo (1974) e della Spagna (1978), e nella Costituzione jugoslava (1963). Più di recente quasi tutte le nuove Costituzioni degli Stati dell’Europa orientale e di quelli sorti dallo scioglimento dell’Unione Sovietica hanno previsto la istituzione di organismi analoghi, e lo stesso è accaduto in altri Stati extraeuropei. Oggi un meccanismo di controllo di costituzionalità delle leggi risulta esistente, in varie forme, in 192 dei 196 Stati del mondo generalmente riconosciuti. Ma se le Corti costituzionali sono istituzioni giovani, il problema da cui esse nascono e a cui cercano di rispondere viene da lontano.
Onnipotenza del Parlamento?
Secondo la più antica tradizione costituzionale europea, formatasi soprattutto nella Gran Bretagna del Sei-Settecento e nella Francia postrivoluzionaria, anche le istituzioni statali sono soggette al diritto, e i giudici (le Corti, i tribunali), indipendenti dagli altri poteri, hanno il compito di risolvere le controversie, applicando le regole di diritto e ripristinandone l’osservanza quando esse sono violate. Ma come nascono le regole del diritto dello Stato? Esse scaturiscono dalla tradizione che si fissa in consuetudini dichiarate e applicate dai giudici, oppure dalle leggi emanate dagli organi investiti del “potere legislativo”, cioè dai Parlamenti, eletti dai cittadini e perciò rappresentativi della volontà popolare. I giudici non possono creare o modificare le leggi, ma le devono applicare (essi sono «soggetti soltanto alla legge», come dice l’articolo 101 della Costituzione italiana). Le Costituzioni riconoscono e disciplinano questa “divisione dei poteri”. Sempre secondo questa tradizione, la legge esprime tipicamente la volontà dell’autorità dello Stato. Il Parlamento, che delibera le leggi, è libero nel formularle, è in un certo senso “onnipotente”: secondo un famoso detto riferito al Parlamento inglese, esso “può far tutto, meno che cambiare un uomo in donna”. Ma può anche cambiare liberamente la Costituzione? Su questo punto molte Costituzioni dell’Ottocento non si esprimevano in modo esplicito; più tardi alcune regolarono invece i particolari procedimenti con cui si poteva modificare la Costituzione. Rimaneva però il fatto che, mentre gli atti delle autorità amministrative potevano essere soggetti al controllo di legalità da parte dei giudici, nessuno (neanche i giudici) era invece autorizzato a controllare le leggi – espressione massima della “sovranità” dello Stato – per verificare se esse fossero conformi alla Costituzione.
L’esperienza americana
Gli Stati Uniti d’America, invece, fin dall’inizio della loro storia, hanno seguito una strada diversa. La costituzione americana stabilisce un equilibrio tra poteri della Federazione e quelli degli Stati membri e non prevede l’“onnipotenza” del potere legislativo. Quest’ultimo, infatti, è concepito come un “delegato” dei cittadini e, come tale, non può agire contro i diritti dei cittadini stessi, dai quali trae i propri poteri. In base a questa dottrina costituzionale, che è scritta nel Federalist (la prima e celeberrima illustrazione della Costituzione americana), le Corti giudiziarie si ritennero, fin dall’inizio dell’Ottocento, investite del potere di controllare le leggi, dei singoli Stati e della Federazione, negando loro applicazione se in contrasto con quanto stabilito dalla Costituzione federale: sia con le regole costituzionali sulla suddivisione dei poteri fra Stati e Federazione, sia con le regole costituzionali (introdotte attraverso emendamenti nella Costituzione federale) sui diritti dei cittadini (garanzie rispetto all’arresto arbitrario, libertà di parola, ecc.). In una famosa sentenza (caso Marbury contro Madison, 1803) la Corte suprema federale degli Stati Uniti affermò che la Costituzione è anch’essa una legge, superiore alle altre leggi; che sin quando essa non venga modificata con gli appositi speciali e complessi procedimenti, le altre leggi (“ordinarie”) devono rispettare la Costituzione; e che, se non la rispettano, sono nulle e qualunque giudice ha il potere e il dovere di non applicarle.
In Europa: un controllore per il Parlamento
In Europa l’idea della superiorità della legge, espressione della sovranità dello Stato o del popolo rappresentato dal Parlamento (erede, in un certo senso, degli antichi sovrani “assoluti”), rese per lungo tempo difficile accettare che qualcuno, fuori dal Parlamento, potesse controllare le leggi e negare obbedienza a una legge perché contraria alla Costituzione. Nel corso del Novecento – un secolo sconvolto dalle guerre e segnato profondamente da esperienze autoritarie (in Italia il fascismo) che avevano portato all’abbattimento delle tradizionali istituzioni – prese forza la consapevolezza che la salvaguardia dei diritti fondamentali proclamati dalle Costituzioni e degli equilibri costituzionali fra i poteri esigeva la possibilità di un controllo anche sulle manifestazioni più elevate di volontà degli organi rappresentativi, compresi i Parlamenti, e quindi sulle leggi.
In generale si ritenne, però, che ad effettuare questo controllo non fossero adatti i normali organi giudiziari. Essi sono chiamati ad applicare le leggi piuttosto che a giudicarle, perché formati da magistrati di carriera, non rappresentativi e privi della necessaria sensibilità politica. Controllare la costituzionalità delle leggi non è lo stesso che controllare, per esempio, la legalità di un atto del potere esecutivo: molte norme della Costituzione sono generiche, e applicare la Costituzione non è mai un’operazione soltanto tecnico-giuridica (neanche applicare le leggi, spesso, lo è; ma nel caso della Costituzione questo vale in misura maggiore). D’altra parte il controllo non poteva nemmeno essere affidato allo stesso Parlamento che deliberava le leggi: il controllato non può essere anche il controllore di se stesso. Di qui, la soluzione di creare un apposito Tribunale o Corte, operante come un giudice, formato da persone tecnicamente preparate, scelte appositamente per tale funzione, per lo più elette dal Parlamento o da altre supreme istituzioni statali, non revocabili sino alla fine del loro mandato (in genere di lunga durata o esteso fino al raggiungimento di un limite di età), e indipendenti dai poteri propriamente politici. A questa istituzione fu affidato il compito di controllare la costituzionalità delle leggi e di annullarle se incostituzionali.
Nasce così la “giurisdizione” costituzionale: un’attività di tipo giudiziario, per il carattere dei procedimenti utilizzati, e non politica ma di garanzia delle norme costituzionali; un’attività, però, anche vicina e interferente con le istituzioni politiche che esercitano il potere legislativo.